In un successivo incontro Nicoletta Bonapace ci ha fatto conoscere Alda Merini, poetessa milanese del nostro tempo.
Per renderci più intensa tale conoscenza, ha invitato fra noi Luisella Veroli, archeologa dell’immaginario, amica e biografa di Alda Merini.
Quella che ci ha raccontato Luisella, è una storia di amicizia nata da un rapporto sincero, profondo, vivo, sofferto, tra la maestra di poesia e la sua biografa, tra la poetessa candidata all’Oscar e l’amica che le dà voce per farle raccontare senza filtri, da donna a donna, la sua vita.
Alda Merini ha trascorso parte della sua esistenza negli Ospedali psichiatrici, ma con grande energia, intelligenza, umanità e soprattutto ironia, sapeva trasformare gli incubi della malattia (le voci, i personaggi della follia) in personaggi letterari, in poesia.
Le poesie le sgorgavano come perle, spontaneamente, e dovevano circolare con flusso continuo, così come erano venute.
Lei è poeta- profeta: la vita e la poesia in lei coincidono.
Per Alda Merini la vita, come la poesia, è un mistero alchemico: lo trasforma in oro e lo canta.
Con i suoi versi voleva “cantare l’animalità dell’anima” e il suo primo insegnamento era quello di ascoltare il nostro corpo sessuato, potenzialmente materno ed erotico, per illuminarlo, per riuscire a descrivere “con le ali dell’angelo quello che sentiamo nel grembo come donne e come madri”:
“Se tutto un infinito / ha potuto raccogliersi in un corpo /
come da un corpo / disprigionare non si può l’Immenso?”
Diceva alla Veroli:
“Dobbiamo parlare a cuore aperto dei dolori di chi è stato recluso e dello scandalo di bellezza che è la vita”
e che bisogna superare l’ostacolo della materialità della vita per accedere al divino.
Estraeva dalla materialità dolente (anche dalle persone) il meglio.
“Sgravare la materia per trovare lo spirito è il compito del poeta: farsi male alle mani, al cuore, porsi una infinità di domande e poi buttarle via, fumare per rendere piacevole il transito verso la morte…”
E ancora:
Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
con i ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero”
Oppure:
Un tempo nel manicomio
ho sofferto la libertà infelice
di chi è rinchiuso nel vento
dentro i recinti
di una impossibile corsa.
Poi è venuta la vita:
una lacrima che nessuno asciuga,
un velo di presenza
e così io sto muta
parlo solo nei versi.
E mi aggroviglio
nella mia medesima forza
cercando di rimanere eterna.
Assistere allo spettacolo teatrale tratto dal libro “Alda Merini – ridevamo come matte” di Luisella Veroli, è stato per noi un momento ulteriore di intensità e partecipazione emotiva.
Esso ha mostrato come la sincerità destabilizzante della poesia possa essere un ingrediente indispensabile per la vita.
Lucia Brambilla e Beatrice Galbiati
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