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Maternità e condizionamenti

Buongiorno, sono una donna di 41 anni, sposata con un uomo che amo, e stufa di sentirmi chiedere sempre cose tipo “e figli…?”, con facce compassionevoli (“non li avranno potuti avere…”) oppure a volte addirittura… di disapprovazione!! sembra che una donna sia nata soltanto per far figli e, se non li fa, vale meno delle altre!
Mi rendo conto che farmi toccare da certe parole e sguardi, arrivare a scrivere questa e-mail, significa che pure io un poco sarò condizionata da questa idea, nel fondo mi fa male… però ecco, sarei proprio curiosa di conoscere la vostra opinione al riguardo. Io nel non avere avuto figli, nell’aver scelto insieme al mio compagno di non averli, non mi sento per questo menomata e non vorrei che gli altri così mi pensassero e, soprattutto, giudicassero. Un saluto e grazie, Miriam

cara Miriam,
il tuo è un problema che tocca molte donne, soprattutto di questi tempi, quindi innanzitutto ti ringrazio di averci scritto e di aver sollevato apertamente la questione.
Quanto alla mia opinione, lasciando ora da parte il caso di chi nemmeno si trova a poter scegliere, da un lato credo che sia inevitabile, direi “fisiologico”, che di fronte a questa potenzialità che è il procreare, ciascuno e ciascuna di noi – specie a un dato momento della propria vita – s’interroghi. Voglio dire: non è magari necessario interrogarsi sul perché non si è scelto, per esempio, di diventare “insegnanti” o “ingegneri” o sul perché non si è fatto questo oppure quello, ma, sul desiderare avere o meno figli, una scelta, in un senso o nell’altro, generalmente si impone. Tu stessa infatti sottolinei: “…nell’aver scelto di non averli”.
L’identificazione della donna con il ruolo di madre ha, com’è ovvio, radici assai lontane, millenarie, e le ragioni di questa radicata identificazione hanno perlopiù avuto a che fare, nel corso della storia, con il potere che, nel confinare la donna in tale ruolo, automaticamente veniva conferito all’uomo – lui sì, abilitato a poter interpretare “tutti” gli altri ruoli sulla scena! E difatti notizie di donne dalla Storia, almeno fino al diciannovesimo secolo, se ne hanno ben poche… come se manco esistessero.
Avere coscienza di questo, e volersene a buon diritto affrancare, non deve tuttavia implicare il negare che l’identità di madre, la figura materna, sia qualcosa di fondamentale per il genere umano e specie per il genere femminile: una cosa che di certo ci accomuna tutti è l’esser venuti al mondo da ventre materno! Un minimo comun denominatore di enorme valore simbolico.
Per tornare alla tua domanda, credo quindi infine che il punto non stia tanto nel tuo doverti giustificare, come appunto fosse una colpa o una mancanza (una menomazione, scrivi acutamente tu) il non aver avuto figli, quanto piuttosto nel rivendicare o, meglio ancora, riconoscere il senso profondo che – nella tua personalissima storia – l’aver scelto di non avere figli ha avuto, ha, e anche domani avrà.
La stessa cosa dovrebbe fare chi opta per la scelta opposta, non dandola affatto per scontata: avere figli in carne e ossa non significa necessariamente esserne poi genitori in senso pieno – cioè saperli accogliere in quanto tali, prendersene la responsabilità –, così come non avere figli in carne e ossa non significa non averne o saperne avere di altro genere, “figli” in senso simbolico e non per questo meno importanti.

Susanna Fresko, analista filosofa, Sportello donna Cernusco s/N
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Donne senza figli, un libro

Ho preso in mano questo libro con interesse e sono arrivata all’ultimo capitolo con interesse inalterato: esperienza che non capita sempre, in particolare se si tratta di un saggio. E saggio questo testo lo è, non solo per il genere cui appartiene, ma per quanto vi si può trovare di riflessione introspettiva e utile per la vita, per la sua capacità di porre domande significative che avviano a un percorso di cui si può anche non intravedere la fine. Le risposte non sono tutto.

Cosa mi ha spinto a comprare questo libro, non appena è uscito? Il tema trattato, ovviamente, anche la conoscenza dell’autrice, ma soprattutto la voglia di cercare un confronto su una questione che ancora mi interroga, nonostante si sia chiusa per me la possibilità di scegliere la maternità: l’orologio biologico è scattato da un pezzo.

Eleonora Cirant dichiara nel capitolo finale di essere partita da un essenziale presupposto: “il personale è politico”. Potrà forse risuonare come un mantra per chi, come me, ha creduto nel femminismo, o essere un fastidioso slogan fuori moda per altri; una cosa è certa, coniato nei lontani anni ’70, conserva una sua indiscussa verità. Assumere questo punto di vista ha permesso all’autrice di usare un metodo efficace di ricerca, le ha consentito di affrontare la complessità del tema, con un esito a mio parere mai superficiale, mai astratto, ma “leggero” e profondo insieme, sapiente, cioè saggio, come ho già detto. Scrive Eleonora : “Scoprire che il personale è politico mi ha costretto a smontare le categorie di giudizio. Ha illuminato zone d’ombra. Mi ha spinto a riaprire i libri di storia e di filosofia e a rileggerli da un altro punto di vista. Mi ha offerto una chiave di lettura per decodificare il sapere, la lingua, le immagini, le abitudini, le situazioni …”. Potenza di uno slogan.

Nel libro si indagano le scelte di una generazione di donne, quella tra i trenta e i quaranta anni, non segnata da una presenza forte del movimento femminista, che dà per scontate opzioni impensabili trenta anni fa, che sperimenta il precariato come condizione esistenziale. Ne risulta un testo “cresciuto con un occhio alla pratica e uno alla teoria”, come si spiega nell’introduzione. Il lavoro che è stato fatto è davvero serio, come emerge anche dalle citazioni e dai riferimenti bibliografici di tutto rispetto.

Accanto ai concetti espressi da psicanaliste, sociologhe, letterate e saggiste, trovano una collocazione importante le testimonianze di donne comuni che riflettono nel “cerchio delle amiche” e raccontano le diverse emozioni ed esperienze. Confesso che mi ha fatto piacere sapere che la giovane autrice si presenta come femminista e non solo quando intende provocare una reazione, come racconta nello spiritoso capitolo” Soft-femminismo” che chiude il libro e che, sarò di parte, mi sembra dare un significato pregnante a tutte le altre pagine.

L’interesse con cui ho letto le storie di queste giovani donne, nasceva anche dal desiderio di confrontarmi con la generazione del post-femminismo. Forse ero ansiosa di costatare che non tutto è andato perduto, anche se cosciente della loro libertà di scoprire strade nuove, magari discordanti da quelle che noi avevamo trovato, di maturare convinzioni differenti. Le nostre affermavano la possibilità di non identificarci come donne nel ruolo monolitico materno, riflettevano il bisogno di aprire le porte al conflitto ridiscutendo ruoli e destini scritti da altri per noi, esprimevano la necessità di smontare pregiudizi e retoriche. Mi sono riferita più volte al capitolo sul femminismo, non entro nei contenuti delle altre parti del libro, aggiungo solo che nessun aspetto è stato trascurato.

La ricerca si è avvalsa di dati statistici aggiornati, ma non si è soffermata troppo sui numeri, si è occupata di indagare le scelte di queste donne a partire dall’analisi del desiderio di maternità, quello ambivalente e quello inappagato, nel continuo confronto con le condizioni reali del vivere: soldi, casa, lavoro, senza ignorare condizionamenti, tabù e conflitti. Ho apprezzato l’ironia e la vivacità del linguaggio, il ricorso a metafore inedite, i rari e divertenti consigli, il coraggio nell’affrontare le ombre. Mi sono piaciuti la dedica e il ringraziamento dell’autrice ai suoi genitori.

Ho trovato molti aspetti positivi in questo libro, forse manca quell’organicità che qualcuno potrebbe aspettarsi da un piccolo trattato, ma mi ha convinto soprattutto la capacità di dire con libertà l’indicibile, di svelare le ombre, di denunciare i luoghi comuni. In una pagina Eleonora Cirant dichiara di aver voluto dare “… un piccolo contributo alla causa per abolire la maternità come ideologia e istituzione e a favore della maternità come esperimento”. Se questo era l’intento, mi sembra riuscito.

Credo che la lettura di questo libro, a dispetto del titolo apparentemente scoraggiante, “Una su cinque non lo fa”, possa essere utile alle donne che invece lo vogliono fare in modo consapevole. Mettere a fuoco le strettoie tra libertà e costrizione, ragionare insieme sul valore e il senso, aiuta la scelta, qualunque essa sia.

Rosaura Galbiati

28 giugno 2012