C’era una volta una rosa che non credeva più nel vento. Era successo molto tempo prima. Quando la rosa era piccola. E silenziosa. Perché non era una rosa di cespuglio, ma nemmeno una grande alta rosa solitaria. Era solo una minuscola rosa sola, perché il vento aveva trasportato il suo seme lontano, tra i tronchi degli alberi, in un giardino di città, tra la Germania e l’Africa.
La rosa era esile e rossa, con spine delicate, petali sottili come segni d’aria, foglie leggere come ombre. Cresceva piano piano, pochi centimetri da terra e i suoi vicini erano faggi e larici, un olmo, un tiglio, un timido nocciòlo. E fu proprio il nocciòlo a portarle la notizia. Era un mattino di ottobre, faceva freddo, come quando l’inverno disfa l’autunno e avanza con il suo respiro di ghiaccio, per fare, per fare niente, per fare il vuoto.
La rosa tremava e guardava in su, guardava sempre in su perché aspettava qualcuno. Questo per la rosa era l’amore: aspettare qualcuno. Qualcuno che la sollevasse, qualcuno che la strappasse dall’umido della terra, dalla massiccia presenza degli alberi, dal pettegolio dei fili d’erba per portarla nel libero accampamento di cielo-nuvole.
E aspettava aspettava e aspettando non cresceva.
Fu proprio quel mattino d’ottobre che il nocciòlo la avverti: — Oh, piccola rosa, guarda: i tuoi leggeri piedi si stanno staccando dal terreno. Perderai la zolla e con lei la radura e con la radura e con la radura la foresta. Ti perderai.
— Che importa! — rispose scandalizzata la rosa. – É un rapitore che aspetto, non uno zappatore o qualcuno che mi atterri, qualcuno che mi involi, qualcuno come… un volteggiante manto, un soffio deciso, uno squillo di richiami.
- Allora è il vento che aspetti! — esclamo il nocciòlo. — Vento? V, e, n, t, o? — chiese la rosa. «E dunque questo il nome del mio amato, di colui che solleva e strappa dalle abitudini, di colui che mi farà regina alata della solitudine?» ma questo lo chiese in segreto solo al suo piccolo cuore spinoso. Non era una rosa simpatica, era cresciuta senza amici, di tentativo in tentativo si era costruita petali e spine e così era un po’ arrogante e molto ingenua, arroganti spine, ingenui petali.
Da quel giorno aspettò il v, e, n, t, o, il vento. E non arrivò nessuno.
Aspettava, aspettava. E l’attesa rendeva caldo il cuore e freddo il corpo. Osservava, cercava gli indizi e ogni fruscio era già un bussare e ogni rumore era già un richiamo e ogni scricchiolio un invito. Ma nessuno arrivava, il bussare terminava nel becco di un picchio, il richiamo nell’ala di un merlo, l’invito non era che la fontana che cominciava a gelare.
E la rosa aspettava, aspettava.
Perdeva più tempo che poteva, perché ogni minuto perso era un passo che avanza verso l’amato. E non si curava delle chiacchiere degli altri, dei coltelli delle parole, nemmeno dell’inverno che avanzava si curava, solo aspettava, aspettava.
E una notte le stelle seminarono nel cielo un percorso diverso, un sentiero che toccava la rosa in pieno petto. Guardando in su, la rosa vide il sentiero farle un cenno e volle raggiungerlo. E cosi pregò: – Non ho più tempo per l’amato, non ho più tempo per l’attesa del vento, subito adesso voglio raggiungere l’aperto, bruciami cielo -. E così intensa era la sua preghiera e così solo il suo cuore e così incapace di sollievo la sua febbre che quando ancora una volta nessuno arrivò, la rosa smise di credere nel vento.
Non nel nome del vento smise di credere, ma proprio nel suo arrivo, perfino nella sua esistenza.
E la rosa smise di aspettare, chinò piano piano la testa, la pioggia trafisse i suoi petali, il sole indebolì le sue spine, la rosa si sentì indifferente. Imparò perfino a chiacchierare con l’erba, bevve senza comprensione la rugiada, ascoltò il nocciòlo dire ai vicini: — Ah, la piccola rosa! Sembrava cosi appassionata. Ma è il vento che l’ha nata solitaria ed è giusto che sia stato il vento a tradirla.
E la rosa si addormentò. Non sognò cavalieri, né abbracci di nuvole, né libero cielo; sognò solo piccole radici, un leggero profumo, i passi di un giardiniere: essere una rosa qualunque, non aspettare che piccole cure, non sognare l’inventore dell’amore.
Era dicembre e dall’Africa si alzò il vento, il v, e, n, t, o, quello del deserto, il vento esperto, feroce che brucia le mani e la faccia, il vento che sveglia la sabbia, l’assassino di chi non vuole volare.
E come per caso, come per passeggiare, il vento raggiunse un giardino di città tra la Germania e l’Africa. E come per ghiribizzo, come per esercitare la sorprendente vista del vento, lasciò cadere lo sguardo sulla piccola rosa addormentata. E vide, le briciole del suo sogno, la stanchezza della sua infuocata attesa, la brevità della sua illusione, e senza amore né disprezzo la portò con sé, la scelse, solo perché era stanca e piccola e senza attesa, per questo la scelse. E delicatamente la strappò dalla sua terra e con decisione la sollevò e non le permise nemmeno di salutare, anche addio era una parola troppo lunga da pronunciare.
E di volo in volo, sopra il mare, sopra le isole, sul continente, fino al deserto la portò, addormentata.
E così gentile era il suo sonno, così delicata la sua stanchezza che decise di farne una rosa del deserto, un’eterna rosa senza profumo tranne per il vento.
E nel deserto infuocato si risvegliò la piccola rosa. Fermo batteva il suo cuore e il suo stupore percorreva tutta la sabbia, grano per grano fino all’orizzonte. E l’insperata vastità del cielo, il libero abbraccio, arrivato, possibile, finalmente?
E la rosa stupita: — Di che cosa sono fatta? — chiese. —Di niente, di vento, — le fu risposto.
Chandra Candiani. “Storia di una rosa”. In Sogni del fiume, 21-23. Torino: Giulio Einaudi editore, 2022.
A volte capita di attendere qualcosa che possa dare un senso alla nostra vita. Qualche volta, come la rosa, aspettiamo qualcuno che ci faccia sentire amati, importanti, speciali. Questa attesa è spesso carica di bisogni e desideri che si trasformano in aspettative e idealizzazioni. La rosa idealizza il vento, senza ancora conoscerlo gli attribuisce il ruolo di salvatore, di colui che la porterà via dalla sua solitudine. Quanti di noi si sono trovati una volta nella vita a sperare in un amore che ci avrebbe salvati dalla solitudine? Un amore a cui aggrapparsi, nel quale trovare un senso, un’identità. E quanti di noi si sono addolorati, affaticati, disillusi nell’attesa?
La rosa ad un certo punto smette di credere nell’arrivo del vento, di questo amato misterioso. Ma il vento rappresenta l’Amore, proprio quello con la A maiuscola, quello che con il suo soffio ha dato la vita alla rosa, quell’amore che non colma vuoti e bisogni ma insegna, insegna a riconoscere che Amore è ovunque, dentro e fuori di noi. Amore è l’aria che ci accarezza, il respiro che ci mantiene vitali, è ciò che ci scuote e che con la sua forza ci destabilizza. Amore è ciò di cui siamo fatti.
Finché la rosa ha cercato fuori, non ha trovato l’amore sperato. L’Amore si è palesato solo quando la rosa si è arresa, quando ha smesso di cercare un salvatore, quando ha iniziato a sognare di essere semplicemente chi è: “solo piccole radici, un leggero profumo, i passi di un giardiniere: essere una rosa qualunque, non aspettare che piccole cure, non sognare l’inventore dell’amore.”
Il vento la sceglie perché la rosa è finalmente senza attesa. È solo quando smettiamo di cercare fuori ciò che in realtà dimora dentro di noi che realmente incontriamo noi stessi. È in quel momento che si placa l’angoscia della ricerca, ci affidiamo alla nostra essenza, al nostro percorso. E qui scopriamo di essere fatti di “niente” e nello stesso tempo di essere tutto, tutto quello che realmente importa, siamo Vento, siamo Amore.