La polemica sugli ovuli congelati

E’ di questi giorni  la notizia che Apple e Facebook, i due giganti della Silicon Valley, si sono offerti di pagare il procedimento per consentire alle proprie dipendenti di congelare i loro ovuli, in modo da potersi dedicare alla carriera e posticipare quindi la tanto desiderata gravidanza.

La notizia ha scatenato non poche polemiche dato che viene spontaneo chiedersi perché tanta premura e interesse da parte di queste due importanti aziende dell’informatica che antepongono la vita professionale e quindi l’organizzazione, alla vita privata e sociale delle persone e prima di tutto delle donne.
Ma le donne chiedono veramente questo per essere felici?
E poi soprattutto, la conciliazione tra famiglia e lavoro, non è qualcosa di cui dovrebbe occuparsi lo stato sociale anziché dover accettare le condizioni di favore del privato?

Non bisognerebbe cominciare ad introdurre validi sostegni alla genitorialità, traendo spunto per esempio da altri paesi europei come la Francia, la cui legislazione non prevede solo bonus ma anche una seria politica di welfare in materia?
La sociologa Lia Lombardi a questo proposito in suo articolo “Le nuove frontiere della PMA (Procreazione medicalmente assistita). Social egg freezing” scrive:

“Il congelamento sociale dell’uovo è una pratica che si intende offrire (a pagamento) alle giovani donne che impegnate nella carriera o, ancor più, nella ricerca di un lavoro adeguatamente retribuito e qualificato, rischiano di raggiungere velocemente i quarantanni senza aver avuto la possibilità di una scelta procreativa e genitoriale. Consiste infatti nel congelamento degli ovuli in giovane età per poi poterli recuperare più avanti al fine di produrre una gravidanza.
Questa offerta medico-tecnologica però non tiene conto né dei fattori biologici (ovuli di un corpo giovane per produrre una gravidanza in un corpo meno giovane) né dei fattori relazionali e sociali legati a un gap generazionale ampio, in un contesto di famiglie piccole o monogenitoriali.
Quale scelta procreativa e genitoriale si sta offrendo alle donne e anche agli uomini?
Forse quella di restare intrappolate in un lavoro malpagato, non qualificato e precario, in un welfare inconcludente, nell’impossibilità di costruire un legame affettivo per mancanza di tempo, ma con l’avveniristica opportunità di congelare i propri ovuli affinché un giorno potranno forse tentare una gravidanza, con bassissime percentuali di successo?”
Leggi l’intero articolo…

Alcuni approfondimenti:
articolo di Cinzia Sciuto d MicroMega

Devi fare un po’ d’ordine? Arriva la Professional Organizer

In un mondo caotico e disordinato come il nostro, potrebbe essere utile avere tra i contatti una figura come quella della Professional Organizer, una  professione nuova in Italia ma conosciuta bene invece all’estero e soprattutto in America dove è  già attiva dagli anni ’80.
Tenere in ordine non è per niente facile, occorre tempo e organizzazione e secondo alcune ricerche la percentuale di persone disordinate raggiunge persino l’80%, con solo quindi un 20% abbastanza organizzato.

Chi è come potrebbe aiutare una Professional Organizer?
Aiuta ad essere più efficiente, a sfruttare al massimo gli spazi, a risparmiare tempo prezioso e aiuta non solo a casa ma anche sul proprio posto di lavoro, suggerendo sistemi per migliorare l’organizzazione della propria attività o della propria scrivania, sia virtuale, che fisica.
Ordina gli spazi ed elimina ciò che è superfluo, cose a volte anche ingombranti accumulate nel tempo, nell’armadio, sulla scrivania, nel computer.
Quando potrebbe essere utile?
Le occasioni possibili in cui serve l’intervento di una Professional Organizer sono numerose: certamente quando arriva un bambino, ma anche durante un trasloco, una separazione, un lutto o in situazioni di sovraccarico dovute alla difficoltà a selezionare o separarsi dalle “cose” di una vita.
Potrebbe essere utile anche per educare i bambini a sapersi organizzare, fin dai primi anni di vita, partendo dal tenere in ordine i loro giochi e decidendo insieme quali conservare e quali cedere eventualmente per il riciclo.
Perché si dovrebbero buttare cose che potrebbero tornare utili o che sono state care?
Perché riuscire a liberarsi di alcuni oggetti può significare stare meglio e sentirsi più leggere. “Accatastare cose” riflette spesso anche un disordine mentale che si traduce in un togliere spazio alle novità e quindi al proprio benessere.

Per quanto riguarda la formazione, a maggio di quest’anno a Bologna c’è stato un incontro di tutti coloro che organizzano “le vite altrui”. In Italia esiste l’Associazione Apoi, Associazione Personal Organizer Italiani, www.apoi.it, di cui Sabrina Toscani è fondatrice e presidente
51T0nzck-ML._AA160_Un contributo interessante, per chi volesse saperne di più, è dato dal libro “Space Clearing”, ed. Mediterranee e dal sito, www.spaceclearing.it, dove vengono spiegate chiaramente le tecniche di “purificazione degli spazi” o “spaceclearing”, che hanno come riferimento l’antica disciplina cinese Feng Shui che interpreta la casa come come uno specchio della nostra esistenza, per cui fare spazio in casa equivale a farlo anche nella vita.
Un altro spunto è dato anche dal sito “tutto a posto” http://www.tutto-aposto.com/hai-bisogno-di-tuttoaposto/

Donne e gatti: un legame speciale

Chi con i gatti ci vive, sa benissimo che tra gli umani e i felini c’è un forte attaccamento ed una comunicazione vera e propria, c’è intesa, e molto spesso sono proprio le donne che amano avere la compagnia di questi amici tanto da circondarsene non solo a casa ma anche sulle bacheche elettroniche del web. 

Il misterioso legame tra gli amati felini e le donne è stato messo in luce da una ricerca condotta dalla studiosa Manuela Wedl, dell’Università di Vienna, che aveva come oggetto di studio le caratteristiche e i benefici dell’interazione con questi animali.

Dall’indagine si è rilevato che l’interazione  riduce lo stress e ha un effetto positivo sulla salute. Più in generale lo speciale rapporto a due che si crea con il gatto aiuta a sviluppare le capacità di apprendimento e di empatia nelle persone.

Studiando la relazione, la ricerca ha distinto per genere, focalizzando il comportamento dei gatti a seconda se fossero in presenza di donne o uomini. Da qui la constatazione che i gatti interagisco di più con le donne perché quest’ultime entrano maggiormente in relazione con loro attraverso la voce, parlano di più con i loro animali e hanno una presenza maggiore in casa, un maggior contatto fisico, attraverso il gioco e le coccole.

Lo studio mette in evidenza come il comportamento del gatto è più influenzato dal genere femminile proprio per le sue caratteristiche specifiche, determinando così il comportamento e il benessere del felino.

Manuela Wedl, definisce questa relazione tra gatti e donne “molto intensa”.

 
 
 

Non sono come lei

Manuela ha 43 anni, giunge allo Sportello Donna definendosi depressa. Lei si presenta così:

“Provo tristezza, vuoto, non ho progetti, mi manca l’iniziativa, continuo a piangere, mi sento sola”.

Questo stato dura da circa un anno. Racconta di un cambio netto, di una ‘rivoluzione copernicana’ che la trasforma da una donna trucco e tacchi a spillo, attenta alle apparenze, all’immagine estetica, in una donna acqua e sapone e scarpe basse, che vorrebbe fare del volontariato.
Nel primo incontro riferisce sofferenza e rabbia per la fine della relazione con Federico, il suo ex compagno che da pochi mesi si è ricostruito una vita senza di lei, ma immediatamente ridimensiona il suo problema: “Federico non è una ferita aperta, è solo una cicatrice che prude”.

Alla domanda di quale sia allora la ferita aperta, Manuela risponde: “il rapporto con mia madre, sono arrabbiata con lei e le ho detto che sono stanca di prendermi cura di lei, le ho detto di arrangiarsi e  che non la voglio vedere, se no la massacro.”

Manuela descrive la madre come una donna che non teneva alle apparenze “diceva sempre quando sei pulita stai sempre bene”, una mamma sempre nervosa, poco presente per i figli e che litigava sempre con il marito.
Nel corso degli incontri si ipotizza insieme a lei, come Manuela abbia perseguito per tempo l’ideale di avere una vita migliore di sua madre, ecco che allora si concentra per molto tempo sulle apparenze e sull’assunzione di posizioni di prestigio nelle relazioni sociali e nell’ambito lavorativo sia per colmare il vuoto affettivo, sia impegnandosi per diventare una donna diversa da sua madre.
A lungo andare però il “trucco non tiene”. Compare l’insoddisfazione nei rapporti umani, il senso di  solitudine, … È come se la sua idea di essere meglio di sua madre a poco a poco crolli e adesso si trovi ad essere quasi peggio di sua madre, senza una famiglia, sola, ormai il suo ideale è logoro.

Talvolta il timore di riprodurre una vita simile a quella dei proprio genitori e per le donne nello specifico delle proprie madri, incastra, impedisce di vivere realmente come si vorrebbe.

Si agisce solo per differenziarsi dall’altro (in questo caso dalla madre) con il pericolo di non entrare mai in contatto con se stessi, con i propri bisogni, con i propri desideri, non si sceglie perché si vuole quella cosa, ma perché si è certi non volerne un’altra. Si rischia così di condurre una vita, vissuta da ‘un estraneo’ rispetto a se stessi.
La crisi di Manuela è stata salvifica, una volta esplicitato l’ideale che perseguiva, ha potuto liberarsene e scoprire finalmente chi fosse Manuela!
Dr.ssa Chiara Bertonati, psicologa Sportello donna Cernusco s/N.
 

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Quando la rabbia non è accolta

Vi presento Simonetta, trentasei anni, assistente del direttore di una multinazionale. Si mostra sicura di sé, autonoma e competente nell’ambito lavorativo. Due mesi fa è stata lasciata da Carlo, il compagno con cui stava da due anni, e da quel momento piange, si dispera, non ha più interesse per nulla, ma non riesce a provare rabbia.
Simonetta si sente sola, terribilmente e completamente sola.
Primogenita di due figli, è rimasta orfana all’età di vent’anni a seguito di un fatale incidente stradale e successivamente, come esito di incomprensioni, il fratello ha interrotto qualsiasi tipo di contatto con lei.
Sin dal primo colloquio Simonetta appare come molto impegnata a dimostrare a se stessa e al resto del mondo, quanto sia una persona vincente, quanto la sua autostima sia alta, per poi in realtà scoprire, non appena riesca minimamente ad entrare in contatto con se stessa, come tutta l’impalcatura possa crollare da un momento all’altro.

L’ emozione della rabbia, in una donna come Simonetta, sembra quasi sconosciuta, eppure di motivi per provarne ne avrebbe.

Racconta di come da piccola di fronte ai litigi dei suoi genitori e del fratello, lei tentasse sempre di amplificare la sua allegria. Un giorno però stanca di tutte le tensioni si mise su una sedia a guardare la televisione “con il muso lungo” e subito il nonno le disse: “Non avrai il broncio anche tu oggi?”

“Da lì ho capito che non andava bene arrabbiarsi, perché se no non sei accettata e ho ripreso subito a fare l’allegra” – afferma Simonetta.

Dalle sue parole emerge come centrale la tematica del controllo delle emozioni, per esempio la rabbia è controllata, per il timore di perdere gli affetti e rimanere sole.
Un prezzo caro da pagare per riuscire a non essere mai sola, rinunciare al riconoscimento dei propri bisogni. Talvolta la rabbia, il conflitto generano timore, imbarazzo, vergogna. In donne come Simonetta il conflitto è sempre connotato negativamente, da evitare e nascondere.

Simonetta è un invito a riflettere sui propri ‘pregiudizi’ intorno al tema della rabbia e del conflitto; pregiudizi intesi come pensieri, idee, apprendimenti, valori, vissuti… che accompagnano questi temi.

Prendendone consapevolezza è possibile intraprendere una via per il cambiamento che possa aprire altri sguardi che vedano la rabbia e il conflitto da una diversa prospettiva.
Chiara Bertonati, psicologa e psicoterapeuta, Sportello donna Cernusco s/N

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Ansia e panico il corpo racconta

Giulia si racconta come una persona poco interessante, sembra vivere ‘in punta di piedi’, per non disturbare. La sua vita è caratterizzata dal suo lavoro in laboratorio, un corso di yoga, tempo dedicato ai nipotini, una cara amica con la quale ogni tanto si incontra nel tempo libero e sabati pomeriggio trascorsi ad accompagnare la madre a fare la spesa. Ha trentanove anni e vive a casa con i suoi genitori. Arriva allo Sportello donna perché ha avuto episodi di attacco di panico che le hanno lasciato vissuti di ansia (tachicardia, fame d’aria, agitazione…) quasi quotidiani.

Nel corso dei colloqui con Giulia emerge come l’insorgenza degli attacchi di panico, e l’accentuazione delle sue manifestazioni di ansia, siano sempre accaduti in concomitanza di processi di autonomizzazione delle persone significative intorno a lei. Giulia invece sembra essere bloccata, niente nella sua vita fa pensare ad un’evoluzione.

Cosa ci dice l’ansia che l’accompagna costantemente? Cos’è che non può dire con le parole? Cosa invece il corpo vuol dire attraverso il malessere?

Il disagio che esprime nell’arco dei colloqui si scopre essere funzionale al suo sistema di riferimento familiare, infatti si era innestato un circuito vizioso tale per cui il non poter legittimare la sua autonomizzazione, portava a stati di ansia, che a loro volta rinforzavano l’idea che ‘non si può andare a vivere da soli, perché se mi viene un attacco cosa faccio?’, autoalimentandosi all’infinito. Infatti il blocco evolutivo era funzionale a mantenere la presenza di Giulia all’interno della sua famiglia di origine così da mantenere il suo ruolo di mediatrice e controllore del difficile rapporto coniugale dei suoi genitori.

Mostrando a Giulia e condividendo con lei quale potrebbe essere il significato della ansia e legittimando il suo bisogno e diritto di autonomia il sintomo è lentamente regredito e la ricerca per l’acquisto di una casa è iniziata.

Talvolta i compiti di sviluppo, caratteristici delle diverse fasi del ciclo vitale, comportano una rinegoziazione dei ruoli, delle funzioni e la riorganizzazione delle relazioni. Se la famiglia non sarà in grado di modificare il suo stile relazionale e la sua organizzazione strutturale, non riuscirà a superare la crisi bloccando così il processo evolutivo.

 Chiara Bertonati, psicologa e psicoterapeuta, Sportello donna Cernusco s/N

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PACITA ABAD. Black and White Stones in Old Sanaa, 1998
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Non trovo l'amore

Dopo tante storie fallite, forse è meglio stare da sola. A meno di non incontrare un uomo che si metta davvero in gioco. La lettera di una lettrice e il parere della psicologa.

Gentile psicologa
sono una donna di quarant’anni, autonoma grazie a un lavoro soddisfacente anche se faticoso. Un matrimonio da giovane e il divorzio dopo dieci anni. Dopo il marito ho avuto storie con tanti uomini, ma nessuno che si mettesse veramente in gioco. Il problema non è il sesso. Il problema è avere una relazione. Adesso preferisco stare da sola, ho chiuso con gli uomini. Almeno fino a che ne incontrerò uno che ne valga davvero la pena. La mia, più che una domanda, è una constatazione. Lei che incontra per lavoro tante donne ha occasione di parlare della loro intimità, cosa ne pensa della mia scelta? Selin

Cara Selin

molte delle donne che incontro allo Sportello, di età differenti, arrivano spesso ad una scelta simile alla sua. A volte dopo aver tentato di instaurare nuove relazioni senza successo, a volte come scelta a priori a seguito di una separazione o di un divorzio.

Certo le numerose esperienze fallimentari delle donne che incontro, condurrebbero facilmente a generalizzare e ad arrivare a pensare che ‘non ne valga la pena’ o che ‘gli uomini siano tutti uguali’ o che ‘meglio sole che male accompagnate’.

Talvolta scelte come la sua sembrano dettate da il meccanismo di difesa – l’evitamento – che permette alla persona di non entrare in relazione con ciò che potrebbe produrre ansia o malessere; strategia che potrebbe essere inizialmente vincente, ma che alla lunga potrebbe risultare poco efficacie, anzi fonte di sofferenza.

Seguendo il pensiero di alcune teorie psicologiche (Bowlby), possiamo considerare il legame di coppia in età adulta come un processo di attaccamento, ovvero come accadeva in età infantile ( il bambino chiede cure e protezione, la madre offre cure e protezione), il partner viene considerato come una figura di attaccamento in grado di offrire protezione e conforto.

Si sottolinea come non sempre le persone abbiano sperimentato un attaccamento così detto sicuro (hanno fatto esperienza di una figura di attaccamento disponibile e con la quale instaurare un rapporto di fiducia e sicurezza), ma bensì possono essere entrate in relazione con una figura di attaccamento scarsamente disponibile o aggressiva o distanziante.

In tal senso se consideriamo il rapporto di coppia come un processo di attaccamento, ecco come l’incontro fra gli stili dei due partner potrebbero condurre a difficoltà nelle dinamiche delle relazioni di coppia.

In riferimento a questo modo di punteggiare le relazioni di coppia, ritengo utile riflettere su quale possa essere il proprio stile di attaccamento, prima ancora di quello dei partner, così da assumere consapevolezza del proprio funzionamento, al fine di capire come mai le relazioni di coppia abbiano sempre lo stesso finale. Inoltre fare esperienza di una relazione che rassicuri, protegga e dia il senso della prevedibilità permette di modificare i propri modelli di attaccamento.

Sono proprio i sentimenti di sicurezza e appartenenza, senza i quali si sperimentano solitudine e irrequietezza a rendere le relazioni di attaccamento della vita adulta diverse da tutte le altre relazioni, incluse quelle amicali o quelle basate sulla pura gratificazione sessuale.

Chiara Bertonati, psiscologa e psicoterapeuta, Sportello donna Cernusco s/N

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Buon Natale a chi?

Il Natale dei figli di genitori separati. “Vorrei addormentarmi e risvegliarmi dopo l’Epifania quando tutto sarà finito”. Con queste parole Simona apre uno degli ultimi colloqui allo Sportello Donna. Simona ha quarantadue anni, è mamma di Greta, sei anni e quest’anno per la prima volta non potrà trascorrere la giornata del Natale insieme alla sua bambina.

“L’anno scorso, era il primo anno che non lo passavamo tutti e tre insieme, però almeno Greta era con me, quest’anno tocca a lui, al papà”.

Non vuole, piange e non accetta che Greta, in un giorno così importante per la famiglia, sia altrove; non vuole che la figlia vada a casa del padre e della sua nuova compagna, non vuole perché fa male. Fantastica su quale scusa potrebbe fornire all’ex compagno pur di tener con sé la figlia …

“potrei dirle che ha la febbre e quindi è meglio che stia a casa, oppure che proprio in quell’occasione arriverà un lontano parente che vorrebbe rivedere Greta…”.

Non molla, cerca disperatamente qualche scusa che possa essere credibile. Durante l’incontro riflettiamo insieme anche delle possibili aspettative, pensieri, desideri di Greta in merito alla giornata del Natale e a come potrebbe sentirsi la piccola ad andare a festeggiare con il ramo familiare paterno. Simona si ferma, ci pensa e poi sospira:

“credo che non sarebbe un gran problema per lei, si tratterebbe di mangiare con il suo papà, ricevere un sacco di regali da tutti i parenti e poi ci sarebbero anche i cuginetti con cui giocare ai nuovi giochi”.

Ecco che guardando da un’altra posizione, da quella della diretta interessata, la bambina, tutto assume un altro aspetto, meno complesso e forse anche meno doloroso.

La fatica è sempre la stessa, anche nel giorno di Natale, essere attenti e costanti nel distinguere i propri bisogni, i propri desideri da quelli della figlia, escludendo il più possibile quell’emotività connessa al disagio di non essere più coppia.

È compito di entrambi i genitori, nel limite del possibile, salvaguardare anche il ruolo dell’altro genitore, perché è diritto della figlia beneficiare dell’affetto e della presenza di entrambi, senza cadere in sensi di colpa o conflitti di lealtà. Il miglior regalo per i figli di genitori separati non è tanto che i genitori ritornino insieme, ma che smettano di ‘farsi la guerra’, usando come arma da fuoco gli stessi bambini.

Dr.sa Chiara Bertonati, psicologa e psicoterapueta dello Sportello donna di Cernusco s/N.

Sindrome da alienazione parentale

Sindrome da Alienazione Parentale. Forse una moda, una follia, un’etichetta, un’idea perfetta… davvero esistono professionisti di diverse categorie, sia psicologiche, sia giuridiche che si fidano e affidano a simili affermazioni? Il parere della psicologa dello Sportello donna di Cernusco s/N sulla Sindrome da Alienazione parentale.

Ricordo Pamela, la mamma di Patrizio sei anni e mezzo. Pamela non è mai stata sposata con Luciano, il padre di Patrizio. All’inizio Luciano non avrebbe neanche dovuto riconoscerlo, poi quando è nato la nonna materna ha detto a Pamela: “Chiama Luciano digli che suo figlio è uguale a lui e che deve riconoscerlo”. Pamela così ha fatto. Da quel momento i neo-genitori hanno tentato un breve periodo di convivenza, ma con scarso successo, infatti dopo qualche mese il padre è andato a vivere altrove iniziando una nuova relazione di coppia.

Luciano si interessava al suo bambino, trascorreva del tempo con lui, gli comprava dei regali.

A poco a poco però Patrizio manifestava sempre più difficoltà nel trascorrere del tempo con il padre fino a tal punto da non voler più stare i weekend presso la sua casa. E Pamela? Pamela era preoccupata e non capiva cosa stesse succedendo. Ripeteva in continuazione a Patrizio che ‘doveva andare da suo padre, perché era sua padre’, ma lui non ne volava sapere; ogni qualvolta che arriva Luciano a prenderlo piangeva, urlava e si attaccava alla madre. Pamela si è rivolta allo Sportello Donna.

Attraverso il lavoro psicologico è stato possibile attribuire un senso al comportamento di Patrizio, infatti il bambino aveva colto perfettamente la fatica della madre nel rimanere sola tutte le volte che lui avrebbe trascorso i weekend dal padre e di come fosse poi in ansia nel non vederlo.

Pamela sarà stata una madre alienante? Chissà, personalmente posso dire di avere incontrato solo una madre molto addolorata per aver perso un compagno, confusa dalle reazioni del figlio, spaventata dal vuoto della solitudine e alle prese con tutte le sue fragilità personali. Dubito che modalità punitive e restrittive, così come proposto da Gardner

“il tribunale deve stabilire un sistema di sanzioni efficaci che non deve esitare ad infliggere al genitore alienante, qualora tenti di sabotare il programma terapeutico concordato con lo psicoterapeuta. Le sanzioni sono di grado crescente,fino ad arrivare al carcere”*,

avrebbero portato ad un cambiamento nell’interesse del minore e a benessere di tutti e tre.

Sottolineo inoltre la gravità delle seguenti indicazioni proposte nel modello di Gardner

“il terapeuta dovrebbe ignorare le lamentele del bambino deve avere la pelle dura ed essere in grado di tollerare le grida e le dichiarazioni sul pericolo di maltrattamento”**

atteggiamento rischioso, poiché potrebbe portare alla negazione da parte del professionista di possibili situazioni di abuso. E anche nel caso in cui non fossero reali, non ci chiediamo come mai il bambino le urli?

Trovo questa punteggiatura delle relazioni familiari aggressiva e irriverente nei confronti della sofferenza che interessa bambini e adulti.

Dott.ssa Chiara Bertonati, Psicologa e Psicoterapeuta

Sportello donna Cernusco s/N

* Sazzullo M. “La sindrome di alienazione genitoriale (PAS):psicopatologia e abuso dell’affidamento nelle separazioni. Interventi di confine tra psicologia e giustizia.” LINK, n. 8, gennaio 2006, pp. 6-18.

**Crisma M. et al. 2007 “L’occultamento delle violenze sui minori: il caso della sindone da alienazione parentale” Rivista di sessuologia, 31(4), pp. 263 – 270.

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La gelosia del primogenito

L’arrivo di un fratellino o di una sorellina porta ansie paure e gelosia nei figli e alle figlie più grandi. Come affrontarle?

Vanessa ha quasi cinque anni, frequenta l’ultimo anno della scuola d’infanzia e da quando è arrivata Carolina, sua sorella, le capita spesso di avere delle manifestazioni di rabbia, grida, batte i pugni sul tavolo e i suoi ‘capricci’ sono diventati più frequenti.

Silvana, la mamma è molto preoccupata e in parte infastidita dalle reazioni di sua figlia: “Non la riconosco più! Fino a poco tempo fa era così amabile, tranquilla e ubbidiente e adesso non so proprio che atteggiamento tenere nei suoi confronti. Ho provato ad assecondarla, a sgridarla, ad ignorarla … ma non serve a nulla”.

Queste sono le parole di una mamma affaticata e disorientata dal sovraccarico fisico ed emozionale, connesso alla fase di vita che sta affrontando, e che non riesce a comprendere a fondo il significato della rabbia della sua bambina.

La percezione di non poter essere di aiuto a Vanessa, crea in Silvana un cocktail di emozioni negative tristezza, senso di impotenza e rabbia che contribuiscono a creare ‘distanza’ nella relazione con la figlia. Silvana ha bisogno di aiuto, è per questo che si rivolge allo Sportello Donna insieme a Sebastiano, il marito, anche lui disarmato di fronte ai comportamenti della figlia primogenita.

Attraverso i colloqui con la coppia di genitori è stato possibile ricostruire il significato della rabbia di Vanessa; è emerso come la rabbia fosse una modalità, utilizzata dalla bambina, per esprimere la sua paura per la ‘perdita’. Infatti un cambiamento, come l’arrivo di una nuova sorellina all’interno della famiglia, attiva inevitabilmente vissuti emotivi in tale direzione: perdita del senso di onnipotenza infantile, perdita dell’amore esclusivo dei propri genitori, perdita della quantità e a volte anche della qualità del tempo trascorso con i propri genitori,… e talvolta questi cambiamenti potrebbero portare i bambini, soprattutto i più piccoli, a sviluppare il timore di poter perdere ‘l’amore’ dei genitori.

Ecco che la tristezza connessa a queste rinunce e la paura di perdere il bene di mamma e papà portano Carolina a manifestare il suo ‘dolore’ attraverso atteggiamenti caratterizzati da rabbia. Nel momento in cui Silvana e Sebastiano hanno iniziato a leggere i comportamenti della figlia, non più come degli attacchi personali, ma come una manifestazione di malessere, la distanza nella relazione con Carolina si è attenuata e, a seguito di alcune indicazioni psico-educative, le manifestazioni di rabbia sono gradualmente diminuite, fino a diventare degli eventi sporadici ed isolati.

Dott.ssa Chiara Bertonati – Psicologa – Psicoterapeuta
Sportello donna di Cernusco S/N
 
Crediti immagine: Nadia Magnabosco, http://www.women.it/oltreluna/nadiamagnabosco.htm