Femminicidi: altri 3 casi in due giorni. Il problema è culturale ma intanto la politica italiana si muove

Non si può più chiamarla emergenza. Il femminicidio un tratto culturale radicato nella società italiana difficile da estirpare. A rafforzare questa tesi basta dare uno sguardo alle notizie di cronaca nera delle ultime ore. 
Il 28 marzo in Piemonte in poche ore due donne sono state vittime di violenza.. Nel primo caso a Borgo Vercelli un uomo ha speronato l’auto dell’ex moglie e poi le ha inferto 21 coltellate. Nella notte tra il 28 e il 29 marzo la donna è stata operata all’intestino a causa delle profonde ferite ed è ancora in prognosi riservata
E’ andata peggio a una donna di Pinerolo (Pinerolo) che, sempre il 28 marzo, è stata accoltellata a morte dal marito disoccupato che l’accusava di spendere troppi soldi. Dopo l’aggressione è stato lo stesso uomo a chiamare i carabinieri e a confessare. 
Mercoledì 29 marzo è stato un altro giorno tragico. A Felegara (Parma) un uomo ha ucciso la moglie, anche in questo caso a coltellate, e poi si è tolto la vita. A dare l’allarme dell’omicidio-suicidio è stata la figlia che era andata a casa a trovare i genitori.
Sarebbe però falso affermare che nessuno fa niente per contrastare il fenomeno. Oltre le molte iniziative su tutto il territorio (a partire da Cernusco sul Naviglio) la politica sta cercando di colmare i vuoti legislativi e aggiornare le norme. La Camera ha infatti già approvato una legge che inasprisce le pene per gli autori dei femminicidi e prevedono maggiori tutele per gli orfani. Ora si aspetta il sì del Senato.

Sono felici le donne italiane?

Elle, una delle riviste femminili più diffuse nel mondo, ha svolto un’indagine sulla “felicità al femminile” nei 42 paesi dove viene pubblicata. E i risultati, almeno per quello che riguarda il nostro paese, sono abbastanza sorprendenti e altrettanto sconfortanti:

solo il 35% delle donne italiane si sentono felici,

si tratta in assoluto del dato più basso tra tutti quelli presi in esame dal magazine. Le più felici risultano le canadesi con il 91% di mediamente soddisfatte, ma anche le olandesi sfiorano il 90% , le tedesche superano abbondantemente il 70% e le francesi sono comunque felici  al 68%.

Leggendo questi dati è facile dare al lavoro (o meglio, alla mancanza di lavoro),una buona parte di responsabilità visto che attualmente solo il 50% delle italiane lavora e di queste solo poco più del 30% svolge una professione gratificante, un dato che casualmente si avvicina a quello delle felici tout court.

Il luogo comune che vede la donna italiana tutta casa e famiglia sembra resistere negli anni visto che l’ambiente dove ciascuna di noi si sente più a suo agio è per il 71% la famiglia con il 75% per cento che si dichiara anche sessualmente appagata.

Evidentemente marito, figli e casa non devono essere poi così appaganti se due donne su tre non ce la fanno proprio a dire di essere contente.

Ma il dato più sconfortante rimane quello delle donne che hanno voglia di lottare per raggiungere un obiettivo gratificante come la realizzazione professionale che in media nel mondo si attesta al 75% e di colpo nel nostro paese scende al 25%. Insomma solo un’italiana su quattro ha ancora speranza e voglia di lottare. Dati tratti da www.elle.it/the-happiness-index

La forza della conciliazione

Conciliare il lavoro con la cura della casa e della famiglia, conservando del tempo anche per sé,rimane uno dei principali problemi delle donne e renderlo visibile a tutti  è sicuramente uno dei modi di affrontarlo.

Con questo obiettivo il Comune di Milano, in collaborazione con l’associazione Giulia (Giornaliste Unite Libere Autonome) ha organizzato il premio fotografico ‘Lo Sguardo di Giulia” rivolto a fotografe professioniste e dilettanti che dovevano appunto sviluppare nel modo migliore il tema della conciliazione.
Su sedici fotografe selezionate per la finale, tutte donne fra i 17 e i 61 anni, sono tre le premiate:
nella categoria ‘professionisteha vinto Jutka Csakanyi, una milanese nata a Budapest, per “la rappresentazione ‘teatrale’ e d’impatto felicemente ironica di una donna sulla quale si appoggia tutta la famiglia”;
nella categoria ‘amatoriali’ ha vinto Elena Albano, medica fisiatra, per “la dimostrazione plastica di come la conciliazione sia equilibrio, armonico e mai statico”;
per la categoria ‘under 18’ è stata premiata una giovanissima studentessa, Silvia Moia, che “è andata dritta al sodo con un’immagine di cronaca di familiare routine quotidiana ma ben ‘conciliata’”.

A premiare le vincitrici è stata la delegata alle Pari Opportunità del Sindaco di Milano Francesca Zajczyk che ha confermato come questo concorso fotografico sia uno strumento importante per divulgare una cultura dell’immagine davvero rispettosa delle donne.
E a proposito di rispetto non poteva passare inosservata l’utilizzo scorretto delle immagini del ministro Madia da parte della rivista Chi, ennesimo esempio di come ci sia ancora tanta strada da percorrere per raggiungere una vera parità.

La mostra fotografica sarà allestita dal 18 al 28 novembre, nel teatrino di Villa Visconti d’Aragona, a Sesto San Giovanni, in via Dante 6. Successivamente sarà esposta anche a Milano.
Galleria fotografica
 
 
 

Rita La Monica e Antonia Garavelli, due acquarelliste da scoprire

All’interno della rassegna “Percorsi d’arte” sabato 18 ottobre – ore 16.00 vi sarà l’inaugurazione della mostra
GIOCHI D’ACQUA GIOCHI DI COLORE
di Rita La Monica e Antonia Garavelli .
L’esposizione rimarrà aperta sabato 18/10 e 25/10, dalle 15 alle 18; domenica 19/10, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18 e negli orari di apertura al pubblico degli uffici comunali Villa Greppi – Ridotto Sala Consiliare.

 Due presenze, due interpretazioni di una stessa tecnica caratterizzate da un diverso uso dell’acqua, medium tipico dell’acquarello.

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In Rita l’acqua che dilaga costruisce ed evoca immagini.
Lei controlla il processo seguendo un suo pensiero compositivo.
Tutto è immediato e subitaneo fino a giungere all’individuazione della forma soggetto.
 
 
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Antonia lavora per velature il che significa un uso più controllato dell’acqua. Le tonalità cromatiche si sovrappongono fino costruire una “texture” che osservata da ogni lato permette all’artista di individuare la forma soggetto.
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Entrambe non partono dunque da un soggetto predeterminato o da una forma prefissata ma vi giungono attraverso i  giochi d’acqua e i giochi di colore.

 

I gesti delle donne: modi di essere al femminile. Concorso fotografico

L’iniziativa del concorso fotografico “I gesti delle donne: modi di essere al femminile” promosso dal Comune di Bussero, fa parte di un percorso che vuole sensibilizzare, sostenere e valorizzare modi  e risorse di esprimere la femminilità nel quotidiano.
 Le fotografie – massimo due – vanno consegnate al Protocollo del Comune di Bussero.

Regolamento e modalità di partecipazione sono disponibili sul sito Internet del Comune di Bussero.

La premiazione avverrà il 12 ottobre 2014 in occasione di “Bussero in festa”.
La partecipazione è gratuita ed è aperta a tutti, adulti e ragazzi, a partire dagli 11 anni.

Il termine di scadenza previsto per il 15 settembre è stato procrastinato al 26/09/2014 h. 11.30

 

Un nuovo “genere” di turismo

Si dice spesso che l’Italia, il paese col maggior numero di patrimoni dell’Unesco, potrebbe vivere solo di turismo e che il 2014 dovrebbe essere un anno di crescita, che riporterà il PIL turistico al di sopra dei livelli del 2012.

Dal punto di vista professionale le donne in questo settore occupano il 60% dei posti di lavoro nell’ accoglienza e nella cura dell’ospite, ma svolgono solo il 33,8% nei ruoli dirigenziali.
Come turiste invece, decidono le vacanze per la famiglia, spesso viaggiano senza compagno, con amiche oppure da sole con i propri figli. Questo nuovo modo di concepire il viaggio ha fatto nascere associazioni e servizi che prima non esistevano: agenzie di viaggio specializzate, siti internet e forum.

Le donne che viaggiano mettono in evidenza mancanze, prima fra tutte l’assenza di sicurezza e di conseguenza la necessità di protezione.
A questo proposito l’India, dopo le notizie sulle frequenti aggressioni sulle donne e gli stupri, ha perso il 35% delle turiste, comportando oltretutto un danno economico notevole all’ex colonia inglese.

Il “ turismo responsabile di genere” è una importante novità, ben rappresentata dal Gender Responsible Tourism http://www.g-r-t.org/, un’associazione che ritiene che le donne abbiano un grosso potenziale da spendere in campo turistico: “Perché le donne si coniugano perfettamente con tutto ciò che riguarda il turismo. Sono creative, sensibili, costruttive. E dato che, mediamente, guadagnano meno degli uomini e, in alcuni Paesi, soffrono importanti discriminazioni, ho pensato che puntare sul turismo per dare loro un’opportunità di vita migliore sarebbe stato uno strumento concreto”, commenta la responsabile Iaia Pedemonte.

Parlare di turismo al femminile, potrebbe essere prima di tutto un’occasione per discutere su un tema dalle grandi potenzialità, in modo da rafforzare le pari opportunità e l’occupazione, e quindi lo sviluppo sociale e non solo quello economico.

Di turismo responsabile di genere se ne è cominciato a parlare già dal 2012 alla più grande fiera mondiale del turismo, la World Travel Market  http://www.wtmlondon.com/, e se ne parla anche in Italia ogni anno al Festival di It.a.cà  http://www.festivalitaca.net/, manifestazione dedicata ai viaggi e al tempo libero di migranti e viaggiatori, da cui abbiamo tratto l’immagine che appare in questo articolo.

Carla Daturi

Carla Daturi, protagonista insieme ad altre donne pittrici di mostre personali allestite a Cernusco S/N, Milano ed altri comuni limitrofi, insegna e dipinge per passione.
Le sue opere, come appaiono sul sito personale  www.carladaturi.com, trovano qui, in questa spazio “significati” che vanno ad unirsi ed arricchire i suoi quadri.
Ringraziando l’Assessora all’Educazione, Culture e Lavoro, Rita Zecchini,  che ha segnalato la presenza sul territorio di questa artista, auguriamo a tutto il gruppo delle pittrici di Cernusco Sul Naviglio di continuare il percorso artistico e di diffonderlo.

Carla Daturi  in una  lezione quasi virtuale, presenta e introduce i suoi quadri così:

 I quadri aventi soggetti concreti, come nature morte o paesaggi, rappresentano una ricerca estetica di bellezza e di armonia nelle forme e nei volumi.

Essi sono spesso monocromatici,  perché quando un quadro ha vari colori, la prima percezione che si ha all’osservazione è quella dei colori e solo successivamente quella delle linee; se, invece, il quadro è monocromatico, la percezione immediata è quella delle forme.

In un certo senso queste opere sono metafisiche, poiché gli oggetti sono considerati in sé, al di fuori del tempo e dello spazio reale. Nei quadri con soggetto archeologico c’è il desiderio di trovare il presente nel passato ed il passato nel gusto estetico presente.

I quadri in pietra, invece, rispondono ad una esigenza di astrazione, di pensiero, di spiritualità. Questa produzione si inserisce nella nostra antica tradizione del mosaico, già stupefacente in età Romana, ma con varianti di contemporaneità nella tecnica e nello scopo estetico, finalizzato all’emozione nella percezione.

Le tessere di marmi e pietre dure, di dimensioni molto variabili, sono disposte non solo orizzontalmente, ma anche verticalmente, in modo da creare una superficie suggestiva in cui i lucidi si alternano agli opachi, i lisci ai ruvidi, i  bassi agli alti, in una composizione mossa ma al tempo stesso armonica.

Sono una sorta di quadri-scultura.

Ogni opera è contraddistinta da un particolare andamento ritmico, ripetitivo, simmetrico, che può svilupparsi in verticale, in orizzontale o in obliquo, tuttavia la regolarità compositiva si interrompe per lasciare spazio alla irregolarità e alla asimmetria.

La ragazza con il turbante

Probabilmente andremo a Bologna, se non l’abbiamo già fatto, e principalmente per vedere lei, “la Ragazza con l’orecchino di perla”, dipinta da Johannes Vermeer intorno al 1665, al momento ospite fino al 25 maggio 2014 a Palazzo Fava, a Bologna.
Il dipinto fa parte di una mostra itinerante, 37 capolavori di artisti eccellenti come Rembrandt, Frans Hals, Van Honthorst, De Hooch, che rientrerà al museo Mauritshuis il prossimo 27 giugno.

“La ragazza con l’orecchino di perla” é senza dubbio un bel quadro, è un dipinto che affascina principalmente per il gioco pittorico di colori molto intenso che quasi ipnotizza.
Gli elementi che attraggono sono diversi, i grandi occhi azzurri-grigi dotati di riflessi chiaro e scuri, i toni delle labbra, l’angolo della bocca dipinto con tocchi di rosa sovrapposti, la luce della perla grande, probabilmente finta, dato che all’epoca usavano quelle naturali e solo i più ricchi potevano acquistarle.
L’identità della fanciulla rimane sconosciuta, resta la sublime bellezza del profilo intensamente illuminato.

“Ragazza con il turbante” così veniva chiamato il dipinto all’uscita nel 1999 del libro di Tracy Chevalier che diventa un caso editoriale e che ne cambia il nome  in “Ragazza con l’orecchino di perla”:

“Girai la testa e lo guardai da sopra la spalla sinistra
I suoi occhi si agganciarono ai miei. Non riuscivo a pensare a nulla se non che il loro colore grigio era identico all’interno di una conchiglia di ostrica. Sembrava che stesse aspettando qualcosa. Il viso incominciò a contrarmisi dalla paura, forse non gli stavo dando quello che desiderava”.
La ragazza con l’orecchino di perla, T. Chevalier

 Diventata icona della pittura olandese definita l’Età dell’Oro della pittura dei Paesi Bassi, il dipinto  rientra nella categoria dei tronie, una forma artistica in voga nell’Olanda del Seicento dove era comune riprendere dei tipi qualunque, in questo caso una donna comune, che poi sarebbero andati a decorare le pareti delle abitazioni.
Dopo la morte del pittore,1676, si perdono le tracce del quadro che ricompare nel 1881 a una vendita all’asta a L’Aia, dove viene pagato solo due fiorini e trenta centesimi. Alla morte del proprietario del dipinto nel 1902, Arnoldus des Tombe, si scoprì che il collezionista aveva in segreto lasciato al museo Mauritshuis de L’Aia dodici dipinti fra i quali anche la “Ragazza con l’orecchino di perla”.
Nel 2003 dà vita al film di Peter Webber con Scarlett Johansson e Colin Firth.

Blu

È un pomeriggio cupo, di fine inverno. Sfilacciato da un gelido vento marzolino, qualche viticcio di nebbia si allunga a screziare il cielo plumbeo rigandolo di striature lattescenti.

Sono accanto al finestrino, in posizione contraria al senso di marcia, col dorso appoggiato allo schienale e il capo un po’ reclinato a destra, posizione che mi permette di osservare meglio e per intero la linea di confine fino alla curva, dove scompare.

La vedo. È una sottile riga gialla continua, quasi fluorescente, prepotente e maestosa sul nero stanco dell’asfalto sbrecciato che disegna la banchina. Non amo guardarla in faccia, la riga gialla; non amo andare a sbatterle contro e lasciare poi che strisci veloce alle mie spalle; preferisco piuttosto che sia lei a sorprendermi, che faccia capolino sbucando dal niente e poi si faccia risucchiare dai binari trascinata all’indietro. Mi piace guardarla che si dipana mentre il treno avanza, per poi annullarsi e sparire sotto i miei stessi occhi; osservarla nel suo progressivo allungarsi e vederla cambiare, nascere e morire. La riga gialla. Quella linea retta netta, inesorabile, che segna il limite di demarcazione tra chi arriva e chi parte, tra lacrime e sorrisi, tra chi ripiega nella fuga e chi ha il coraggio di restare, tra chi sa attendere paziente e chi non trova mai nessuno ad aspettarlo.

Io sono al di qua, di quella riga: amo guardarla correre, nascere e morire.

Non so bene perché mi piaccia, né so da dove vengo o dove vado. Non so nemmeno se sto arrivando o invece fuggo.

Ecco il fischio del capotreno, e sul suo fischio la rincorsa affannosa dei consueti ritardatari, gli ultimi abbracci frettolosi, lo sbatacchiare scoordinato di chiavi valigie e tacchi, lo scatto metallico dei meccanismi di chiusura delle carrozze, la coda lunga dei baci degli amanti freschi e il via-vai finale dei nuovi avventori, quelli che hanno appena varcato la linea gialla tra mani tese abbracci e sospiri di chi invece è rimasto, immobile, al di là del muro invisibile.

Mi piace osservare da qui la vita degli altri: è come il soffio di un vento mite, che mi accarezzi piano la fronte e smuova i miei ricordi. In questa brezza, rammento di aver avuto anch’io i miei baci in banchina, quei baci dell’ultimo minuto quando con un piede sei già sul predellino del treno mentre con l’altro sfiori appena la riga gialla, quel mix perfetto di passione e malinconia che fotografa sempre le partenze.

Quei baci li ho avuti anch’io, una volta, e mi hanno fatta sentire grande, bella, importante. Per un attimo.

Lui mi giurava ch’ero il suo cielo, e io ne ero convinta davvero, quel cielo mi sembrava di toccarlo con un dito ed era un cielo tutto mio e nostro, a portata di mano, le nuvole erano in alto in alto, lassù dove in nessun modo avrebbero potuto offuscare il blu limpido delle nostre vite leggere.

Io ero il suo cielo. E perciò, già a quel tempo, qualcosa di etereo e impalpabile, che non si può contenere o trattenere. Forse per questo, allora, non fui capace di evitare di andarmene. E un giorno, non so come, decisi di partire. Lo feci d’impulso, senza pensarci troppo, senza dare la giusta importanza a quell’ultimo bacio zoppo preso in banchina, un bacio sfortunato che finsi di cogliere al volo con un piede sul predellino e l’altro sospeso a mezz’aria, e che invece lasciai cadere a terra sulla riga gialla, distratta com’ero dall’infantile entusiasmo della partenza.

Alzo gli occhi, cerco il cielo. Ma oggi il cielo è salito troppo in alto, e i miei occhi non riescono a raggiungerlo: trovo solo una folla di nuvole basse e smagliate, che si spargono nell’aria sfiorando i tetti sbiaditi di un gruzzolo di vecchi edifici dalle imposte sgangherate. Nuvole grigie che si corrono accanto, ognuna incurante dell’altra e tutte assorte in un viaggio lento, composto, verso chissà quale meta, e in quella marcia avvolte in un saio di quiete triste; una pace quasi irreale, che il sottofondo costante del traffico cittadino non riesce a spezzare e anzi amplifica, quasi cullando quella corsa pacata, ordinata e silenziosa.

Il viaggio sta per iniziare, siamo pronti, ed ecco si affianca un altro convoglio, un serpentone grigio e blu dagli occhi opachi assonnati coi freni stridono in modo assordante, e in quello stridio insopportabile il rettile rallenta, rallenta sempre più fino a fermarsi, e intanto ci scorre accanto inghiottendo la banchina, le mani gli abbracci i baci e la riga gialla, pochi secondi e ha ingoiato tutto. Eppure posso ancora intravedere, attraverso i finestrini rigati di sporco, due lettere cubitali bianche su sfondo cobalto: l’estremità di una scritta breve, incorniciata in un rettangolo allungato di un bel blu brillante bordato di bianco. È il contrassegno della stazione, e io lo inseguo con lo sguardo; non so perché, ma il blu mi rasserena.

Intuisco il treno che avanza adagio, ma all’inizio è solo un sospiro, un movimento muto che forse inganna, guardo fuori e non son certa se ad andare siamo noi o i vagoni al nostro fianco; allora sto ferma, trattengo il respiro e anche il cuore, per un istante… ecco sì, siamo partiti, alla fine.

Chiudo gli occhi e tento di eclissarmi, non amo questa parte del viaggio.

La marcia è troppo tranquilla, gli occhi spenti dei palazzi troppo vicini, lo sferragliare dei binari troppo forte… C’è sempre qualcuno che insiste nello sporgersi fuori dal finestrino; potrebbe anche piovere, infuriare una tempesta di vento neve o grandine, non importa, per qualche chilometro dopo la stazione, i finestrini non vogliono proprio saperne di risalire. Poi la galleria. Mi accorgo che il treno è entrato nel tunnel quando le correnti d’aria si fermano, il rumore di ferro si attutisce con una serie di SSSTAAC secchi che si susseguono a ripetizione, e a poco a poco nel buio prende forma un ronzio intermittente di luci traballanti, un lungo fremito seguito da un CLICK improvviso di luce ferma e da un’immancabile cascata di sguardi invadenti. Me li sento addosso, sento quanto pesano e che potrebbero schiacciarmi, allora resto immobile, mi rendo invisibile. Finché il paesaggio si apre, arriva la campagna e il treno corre, avanza più agile e sicuro, questa volta a velocità davvero sostenuta.

A questo punto c’è chi dorme, chi legge un libro e chi scrive al portatile, chi ad occhi chiusi tamburella un ginocchio e intanto fa oscillare il mento in mezzo ai fili dell’auricolare, chi conversa amabilmente col vicino di poltrona e chi invece, come me, si sente finalmente libero di piangere in silenzio, non visto, la sua irrimediabile metamorfosi.

Avverto alberi campi e cascine, alla mia destra; tutti che sfilano all’indietro veloci, ché il treno passa e li risucchia, corre e mi porta avanti e mi imprigiona nel nulla, e io penso che sono invisibile e forse non esisto, e all’improvviso mi accorgo che non riesco più a vedere, non vedo altro che una traccia confusa, colori sbiaditi alberi campi e cascine che scappano mentre io cerco disperatamente di afferrare una forma, un colore deciso e brillante, magari il blu di un cartello che mi dica qualcosa, dove vado o dove sono… ma no, non lo trovo, e non sento più i miei occhi ma lo so, capisco che stanno tentando invano di piangere, perché non ho più lacrime ma un fluido denso, viscido e viscoso, un filo sottile che si allunga imperturbabile, che forse mi esce proprio dagli occhi e mi si attorciglia addosso, un giro e un altro e un altro e a poco a poco mi ritrovo tutta avvolta, fasciata come una mummia, e mentre il filo continua ad avvolgermi tento invano di piangere, vedere, capire.

Ma non vedo e non sento nulla. Non capisco. E nessuno mi vede sente o capisce, di questo sono certa.

Poi un sussulto improvviso e un tonfo, un fischio lungo, uno sbuffo. Ricordo.

Ricordo il giorno che partii, e mi sovviene un cielo immenso di un bell’azzurro limpido, la valigia pesante e il cuore leggero. Rammento l’istante preciso in cui, sulla banchina, varcai il confine segnato dalla riga gialla come in un balzo, senza esitazioni, senza dare alcun peso a quell’ultimo bacio sfortunato, ché certo non lo sapevo destinato a restare per sempre zoppo.

Ero sicura che avessimo tempo, credevo che a breve sarei ritornata e il mio amore sarebbe stato in stazione ad attendermi, così alla fine mi sarei ripresa lui, le mie vecchie abitudini e il mio bacio caduto accanto ai binari. Ma ho dovuto imparare a mie spese che no, il tempo non è mai abbastanza, che la vita non ammette repliche e non puoi pensare che il cielo sia alla tua portata: se lo fai sarai costretto a ricrederti, io lo sto facendo.

Perché all’improvviso, quando meno te lo aspetti, nel tempo invisibile che scorre tra un lampo e il tuono di rimando, il cielo può sfuggirti dalle dita e correre a oscurarsi; con me l’ha fatto. Si è vestito di nero e si preso la mia esistenza semplice, rubandomi per sempre tutti i miei affetti e restituendomi in cambio, forse a titolo di indennizzo o forse in segno di scherno, queste mie nuove, misere spoglie: tutto quello che sono adesso, come mi sento…

Un minuscolo e inutile esserino bislungo e molle, abbarbicato su un sedile di seconda classe di un vecchio treno malandato che corre, rallenta si ferma e corre.

Ecco, quello che sono. Un piccolo bruco ripugnante, peloso e senza voce, che non sa far altro che starsene in disparte a osservare vorace le vite degli altri, e nel suo stesso silenzio si irrigidisce, si fa sempre più insignificante e minuto e scompare, a poco a poco, imprigionandosi esso stesso nel deserto di un involucro troppo stretto, buio, appiccicoso. Un deserto senza l’ombra di un’oasi, dove lui può solo giacere immobile e muto mentre spera, paziente, l’occasione di una nuova vita. La libertà di un giorno.

Un solo giorno in cui, volendo il cielo, alla crisalide sarà concesso di aprirsi.

Quando il baco si sarà fatto farfalla, e la farfalla sarà abbastanza forte da lottare, e con le sue sole forze riuscirà ad aprire nel bozzolo un piccolo varco e ad uscirne.

Quando finalmente, nell’incredibile sforzo compiuto per attraversare quel foro angusto, il baco ormai farfalla sentirà il suo corpo impregnarsi di una linfa vitale, una linfa che, fuori da lì, le darà l’energia per sfregare le ali, farle asciugare al sole e poi finalmente spiegarle al vento e volare, volare in alto in alto, in tutto il suo nuovo splendore.

Adesso il treno corre, alberi campi e cascine mi sfilano accanto veloci e io non vedo, non sento, non esisto. Non ancora. Ma aspetto il mio momento.

So che potrò volare ancora, un giorno. So che avrò ali leggere ma forti, impalpabili come l’aria, incredibilmente grandi. Saranno blu, lo sento. Il blu mi rasserena.

Quel giorno l’aria sarà chiara, un’aria calma e azzurra d’inizio primavera, e fiocchi lievi di panna si alzeranno a rincorrersi, vivaci, sul ritmo spensierato del chiacchiericcio delle cinciallegre.

Il cielo tornerà ad abbracciarmi benevolo, e il suo sorriso sarà dappertutto, ovunque intorno a me, farfalla.

Avrò davvero il cielo a portata di mano, allora; e mi sentirò ancora, almeno per quel giorno, grande bella e importante come un tempo.

Libera e incontenibile, come il cielo. Il mio cielo sereno, finalmente.

Un cielo blu, come me.

Tutto al di sotto delle nuvole.

Sabrina Calzia

Immagine: seiyastock_100_3193.JPG
Da Morguefile mrg.bz/dgH5Fh

Giallo

Quel giorno l’ho lasciata tra le braccia di mio padre, dormiva serena e perciò me ne sono andata a cuor leggero. Nonostante tutto il trambusto che avevo intorno, il muso lungo di papà e lo sguardo attonito di Giorgio, il nostro maggiordomo di sempre, un’espressione balorda che non gli avevo mai visto e che in quel momento non capivo.

Uscii di casa camminando all’indietro, qualcuno mi stava tirando per le spalle e io ogni tanto inciampavo nei miei stessi piedi, ma continuavo ugualmente a fare il gambero, forse lo trovavo divertente, e comunque in quel momento non sarei stata in grado di voltarmi, ché i miei occhi s’erano come incollati a quegli insoliti e vistosi bracciali che Giorgio s’era infilato intorno ai polsi, sembravano manette.

Era tutto a posto, lo sapevo. Avevo fatto il mio dovere fino in fondo.

Le avevo già dato un nome, e avere un nome era tutto, non le sarebbe servito altro; e adesso la stavo lasciando al sicuro in braccio a suo nonno, lì poteva dormire tranquilla.

«Lucrezia, papà! Si chiama Lucrezia!». Lo vidi annuire, e ne fui rassicurata.
Darle un nome. Scegliere un bel nome. Era stato questo il mio primo pensiero, la mia grande e unica preoccupazione nell’istante stesso in cui avevo saputo che lei sarebbe stata mia: l’ansia di trovarle un nome bello, degno di lei e di quello che per me sarebbe stata. Degno di me.
È questo quello che ho provato, e non gioia o tenerezza, certamente non sconforto né paura di non essere all’altezza o chissà che altro. E dopotutto credo sia stata una reazione naturale, visto che il non aver mai avuto un nome vero, un nome che mi appartenesse da subito e fosse realmente tutto mio, è sempre stata la mia grande dannazione.
Il nome di mia nonna me l’hanno appioppato per dovere, e potevano anche farne a meno, dico io, se poi mi hanno sempre chiamata col nome di mia mamma, poveretta… salvo poi pronunciarlo tutti, mio padre per primo, con quell’odiosa riluttanza triste che ero certa volesse dirmi: “Piccola cara non volermene, il suo nome te lo concedo ma rassegnati, non sei come lei né mai potrai esserlo… il confronto non regge!”
Mio padre stentava a pronunciarlo, quel nome, forse non riusciva ad abituarsi del tutto all’assenza di mia madre, così preferiva chiamarmi “piccolina” e se parlava di me con qualcuno diceva sempre e soltanto “mia figlia”. Per Giorgio ero “la signorina”, per zia Clara “la pupetta”, e per tutti gli altri, o quasi tutti, io ero semplicemente “la figlia di”; e dopotutto mi andava anche bene, se era proprio così che io stessa ero solita presentarmi: come “la figlia di”… figlia di mio padre e di una donna che non c’era più. Una donna molto bella e amata da tutti, che un giorno a causa mia era volata in cielo troppo giovane. Partorendo.

Quasi nessuno usava il mio vero nome, quello di mia nonna. E quando qualcuno mi chiamava con quel nome, il nome di mia madre, percepivo nei suoi occhi un conato di compassione che per me era una pugnalata in petto ogni volta, e allora il mio odio per lei cresceva, e io mi arrabbiavo con Dio e col mondo intero e poi anche con me stessa… per averla uccisa così, senza neppure esserne cosciente; arrivavo a pensare che avrei preferito farlo dopo, probabilmente con più motivi e maggior soddisfazione.

Pensieri malvagi, lo so, ma in fondo ero solo una bambina! Una piccola bimba indifesa, senza mamma e senza nome; che avrebbe forse voluto più affetto, e che sognava baci e carezze impossibili… e cercava vendetta alla sua impotenza sfogandosi in quelle innocenti farneticazioni.

La mia bambolina avrà un nome vero, tutto suo da subito e per sempre.

È stato questo il mio primo, anzi l’unico pensiero, il motivo l’ho già spiegato. Forse non ero molto lucida in quel momento, ricordo bene che mi ero appena fatta, la musica era troppo alta e il soffitto mi ballava addosso e le gambe mi s’intrecciavano in continuazione… ma sarebbe andata così in ogni caso, lo so, di questo sono certa.
Pensa e ripensa, quel giorno nel delirio ho scelto “Lucrezia”, che poi è diventato “piccola Lulu” che no, non è una storpiatura ma un diminutivo tenero, affettuoso: io sono la sua mamma, e quindi posso farlo.

Da quando è arrivata la mia Lulu, finalmente ho smesso di essere per tutti “la figlia di”, e sono diventata con orgoglio “la mamma di”. Il che, devo dire, è molto più gratificante.

Stringere al petto la mia bambolina, la prima volta, è stato come rinascere. La tenevo con cautela, mi sembrava talmente piccola e fragile che temevo potesse rompersi da un momento all’altro. E mentre la guardavo dormire tra le mie braccia, chissà perché, continuava a balenarmi in mente l’idea che in realtà quella che avevo in mano fosse solo una statuina di sabbia bagnata, che avrebbe conservato quella forma favolosa finché fosse rimasta umida, ma poi asciugandosi si sarebbe sgretolata a poco a poco e sarebbe scomparsa sotto i miei occhi impotenti, scivolandomi tra le dita senza che io potessi far niente per evitarlo, e prevedevo il vuoto incolmabile che avrei avuto nelle mie mani, mani che senza di lei non sarebbero mai più state così grandi e forti come in quel momento e che per sorreggermi avevano bisogno di un appiglio, e quell’appiglio era lei, e anche se poteva sembrare che io la stessi tenendo in braccio in realtà era lei, la mia ancora di salvezza. Era Lulu a tenere in vita me, e non viceversa.
La guardavo dormire serena, e per un attimo mi sentivo felice, leggera e in pace con me stessa come mai avrei creduto possibile. Ma un istante dopo, chissà come, i miei pensieri impazzivano, facendomi naufragare nella solita visione della statuina di sabbia o in mille altre allucinazioni che non voglio nemmeno ricordare, e io non riuscivo a fermarli, provavo a controllarli seguendo il ritmo del respiro lieve e regolare di Lulu, camminavo su e giù per la stanza inspirando espirando e tentando di calmarmi… poi lei si svegliava piangendo, la prendevo in braccio e la cullavo, prima dolcemente, ma lei piangeva ancora e io aumentavo il ritmo, la cullavo con più energia e la scuotevo, e lei per tutta risposta strillava sempre di più, sempre più forte, non riuscivo a farla smettere. Allora la ributtavo nella culla, sbattevo la porta. E tornavo a farlo.
Mi facevo, ancora.

Dopo essermi fatta era tutto più facile, mi mettevo a ballare col soffitto e la musica a palla, le gambe mi s’intrecciavano per un po’ e poi pian piano si scioglievano, e quando si erano sciolte del tutto la musica finiva e io me ne tornavo nell’altra stanza, stordita ma contenta, e allora ricominciavo a giocare a far la mamma.

Però quella volta il pianto non cessava, e anzi era un crescendo, arrivava a sovrastare il volume più alto dello stereo ed era davvero insostenibile, talmente forte che m’impediva di danzare. Spalancai la porta, indispettita, mi avvicinai alla culla animata da una rabbia che stentavo a trattenere, e d’istinto la presi in braccio con una furia quasi violenta. Poi vidi il suo visino dolce, e subito mi ammansii: tutta la collera sembrava svanita; si era come dissolta, in un attimo.
La guardavo strillare e restavo lì, impietrita. Ero incantata, estasiata dalla sua straordinaria perfezione; pur se gli occhi strizzati erano ora fessure pressoché invisibili, e il suo minuscolo nasino sembrava quasi un brufoletto, così arricciato dal pianto. Era comunque talmente bella! Con la sua tutina gialla, le gote tonde e piene un po’ arrossate, i pugnetti chiusi e i piedini imbizzarriti… la strinsi al petto e ripresi a cullarla, e mentre la cullavo le mie braccia s’intrecciavano, e io non potevo scioglierle e la stringevo, la stringevo forte forte ma nonostante il mio abbraccio il pianto era sempre più straziante, soffocante, disperato.

La mia bambolina ha smesso di piangere, adesso. Qui dentro ho imparato a cullarla bene, le canto canzoncine e le massaggio il pancino quando ha le colichette. Sono diventata brava anch’io, alla fine. Ormai sono una mamma vera che ha smesso di farsi, con le buone o le cattive non importa, quel che conta è il risultato e stavolta, incredibile ma vero, ho finalmente tagliato il traguardo.

Devo ammetterlo, se ce l’ho fatta devo esser grata a Lulu, alle sue piccole manine, alle sue guanciotte rosa, alla sua boccuccia a forma di cuore, ai suoi piedini sempre irrequieti, al suo sederino liscio liscio e ai suoi grandi occhioni scuri… perché qui dentro ho amato tutto e così tanto, di lei, che un giorno finalmente i miei pensieri hanno smesso di impazzire e sfuggire al mio controllo, e io sono riuscita a chiudere per sempre con tutta quella robaccia che un tempo m’infilavo nelle vene.
Da allora mi sento una donna più vera, sana e consapevole. Completa.
E anche se in fondo al mio cuore sarò sempre, prima di tutto, semplicemente “la mamma di”… oggi tutti hanno imparato chi sono. Sanno dove vivo, come mi chiamo e quello che ho fatto. Lo sanno tutti. Non solo chi vive qui, come me, o chi mi ha conosciuto prima che vi entrassi. Ma anche chi non mi ha mai incontrata né mai mi vedrà, probabilmente, ché qui non ci è mai stato e non ci verrà mai, perché la sua vita è tutta là fuori.

Divento matta, se ci penso. Per qualche tempo ho avuto persino le prime pagine, una bella serie di servizi in TV e le interviste dei migliori giornalisti: il tutto fatto a regola d’arte, con puntuale citazione di nome cognome eccetera… quasi che ce li avessi anch’io, un nome e un cognome!

Me li hanno regalati, alla fine, grazie a Lulu; ma ancora stento a riconoscerli, e forse in fondo non credo che mi appartengano davvero.
Lucrezia avrà nove anni, domani. Alle dieci verrà papà a prendermi in auto, e insieme andremo a trovarla.
Lei e la mamma, con una bambola e un fiore.
Una rosa gialla, come ogni anno.
 
Sabrina Calzia